zucchero
Viviamo nell’epoca delle bustine. Quasi tutto quello che mangiamo ci raggiunge attraverso buste di diverse dimensioni. Lo zucchero, ad esempio. Sul bancone del bar ci sono almeno tre bustine: lo zucchero semolato bianco, lo zucchero bruno di pura canna e un dolcificante a base di saccarina sodica. Lo zucchero oggi costa poco. Se vogliamo comprarne un chilo basta entrare in un supermercato: 0,70 euro quello bianco raffinato, o 2,5 euro il bruno. La strada che lo zucchero ha percorso per arrivare sino a noi e raggiungere prezzi così contenuti, è stata lunga e complessa. Quello che usiamo è saccarosio estratto dalla canna da zucchero; può anche essere derivato dalla barbabietola, ma solo a partire dall’Ottocento.
Il saccarosio è un composto chimico organico della famiglia dei carboidrati estratto da un vegetale il cui nome scientifico è Saccharum officinarum. Proviene dalla Nuova Guinea dove, secondo i botanici, sarebbe stato addomesticato alcune migliaia di anni fa. A partire dall’8000 a.C. è arrivato nelle Filippine, in India e poi in Indonesia. Ma sono dovuti trascorrere decine di secoli affinché giungesse da noi a partire dalle isole dove spesso si pensa sia nato: i Caraibi. Lì l’ha portato invece Cristoforo Colombo in uno dei suoi viaggi, nel 1492. Solo dopo questo trasferimento lo zucchero è diventato ciò che è oggi: un alimento. Tra la Guinea e i Caraibi c’è di mezzo, come ha raccontato l’antropologo Sidney W. Mintz, un’altra storia, quella dello zucchero che circola per il Mediterraneo e raggiunge alcuni lidi dell’Europa. Il saccarosio ha seguito il Corano. Sono stati gli Arabi nella loro espansione militare e politica a diffonderlo.
Una storia complicata. Nel 1000 d.C. pochissimi in Europa conoscevano lo zucchero, nessuno o quasi in Inghilterra. Non era un alimento, bensì un medicamento, sostanza officinale. La dolcificazione delle bevande si otteneva con il miele e i derivati della frutta o sciroppi vari. Prima di diventare cibo è stato una spezia, e come tutte le spezie, dal pepe alla noce moscata o allo zenzero, era disponibile solo in piccole quantità: bene di lusso. A usarlo come medicamento, o per conservare il cibo, in alternativa al costoso sale, erano pochissimi: re, regine, nobili. Lo zucchero ha funzionato come sistema di distinzione sociale ed economica. Le storie della tecnologia spiegano che estrarre lo zucchero dalla canna non è un procedimento semplice e immediato. Necessita prima di tutto di forza-lavoro, che da un certo punto in poi ha significato: gli schiavi. La cosa interessante è che nessuno degli alimenti che usiamo oggi in Occidente nasce come un fatto “naturale”. L’antropologo francese Lévi-Strauss l’ha spiegato in modo icastico: prima di diventare “buono da mangiare” deve essere “buono da pensare”.
Nelle mani degli arabi e dei loro successori si è trasformato da spezia-condimento e conservante in un simbolo sociale, poi, molto tempo dopo, in un alimento.
La sua storia, ricorda Mintz, “è determinata dalle preferenze culturalmente determinate per l’una o l’altra qualità”. Certo, c’è la questione della dolcezza. Il saccarosio estratto dalla canna si è imposto tra le preferenze alimentari degli europei come soddisfazione di un bisogno, ma questo solo dal 1650 quando l’Inghilterra ne ha fatto uno degli alimenti principali. È allora che diventa il genere coloniale più ricercato insieme con il tabacco, oltre che la fonte principale di dolcezza degli abitanti dell’Inghilterra.
Avviene la sua trasformazione. Mintz scrive che lo zucchero è stata la prima merce esotica prodotta su vasta scala per la necessità di una classe di lavoratori proletari. Questo nel momento in cui, a metà del Settecento, comincia a svilupparsi il capitalismo mercantile e nascono le fabbriche moderne.
Senza lo zucchero probabilmente non ci sarebbe stata l’energia per lo sviluppo capitalistico, e neppure la creazione di un sistema produttivo che, fino alla metà dell’Ottocento, è fondato sulla tratta degli schiavi neri. Senza lo zucchero il caffè e la cioccolata non si sarebbero diffusi da noi, e nemmeno il tè imposto come la bevanda nazionale degli inglesi. A un certo punto gli abitanti della Gran Bretagna lo trovano sul mercato a tonnellate: è sceso di prezzo grazie al lavoro schiavistico e alle tecnologie di trasformazione.
Secondo gli studiosi lo zucchero sarebbe un “livellatore spurio di status”: passando dai re alla borghesia, e da questa alla classe operaia, ha perso nei secoli il suo valore distintivo. In compenso, ha aumentato la disponibilità di calorie del proletariato urbano, in concorrenza con il più deleterio alcool di rum e gin.
Un passaggio decisivo l’hanno prodotto le marmellate. Meglio: pane e marmellata. Dal 1870 in poi confetture e classi lavoratrici si trovarono congiunte; sciroppi, dolcificanti liquidi e semiliquidi hanno cambiato la dieta di milioni di persone. Tutto merito del saccarosio. Alcuni studiosi sostengono che nell’Ottocento diventò addirittura uno dei narcotici del popolo. Di certo cambiò il destino di un paese. Del resto, come “droga” lo zucchero è meno impegnativo di alcool, caffeina e tabacco; fa meno male, anche se oggi è tenuto in gran sospetto. Il saccarosio ad alto grado di raffinazione produce effetti psicologici speciali; fa bene all’umore e determina una dipendenza, seppur minore delle altre “droghe”. Non dà ebbrezza o euforia, bensì uno stato di benessere, almeno temporaneo. Per questa ragione è stato meno colpito da interdetti religiosi, cosa che è accaduta invece a caffè, tè e cioccolata ai loro inizi. Dal Seicento in poi, tutti a zuccherare. 1
Intorno allo zucchero si snodano, in tempi più recenti, storie che richiamano la schiavitù cui si accennava sopra. Numerosi sono infatti i casi di oppressione e sfruttamento perpetrati ai danni delle comunità e dell’ambiente per ottenere zucchero a basso costo (sfruttamento della manodopera) o per accaparrarsi terreni su cui estendere piantagioni di canna da zucchero. A titolo di esempio, il caso dello zucchero Mascobado nelle Filippine.
Nell’isola di Panay, nelle Filippine, sono state brutalmente uccise una serie di persone appartenenti all’organizzazione Panay Fair Trade Center (Pftc) che produce lo zucchero integrale di canna Mascobado. Fondata nel 1991 su iniziativa di 25 donne, con la sua crescita ha generato una fondazione che promuove la tutela dei diritti umani facendo pressione sulle autorità locali. La lista delle gravi ingiustizie subite da Pftc per il proprio impegno in favore della democrazia e dei diritti delle comunità locali è tristemente lunga. Ricordiamo l’”esecuzione” del presidente di Pftc, Romeo Capalla, ucciso nella piazza del mercato di Oton il 15 marzo 2014 e, dopo tre mesi, l’assassinio di Dionisio Garete – leader della “Kamada farmer’s association”, uno dei gruppi di contadini produttori del Mascobado. Le uccisioni avevano l’obiettivo di colpire l’attività del Panay Fair Trade Center, che oggi rappresenta una rete di cooperative, le cui attività beneficiano tra le otto e le 10mila famiglie sulle isole Panay. La colpa del Ptfc è aver tolto molti piccoli contadini dalla dipendenza dei latifondisti, cancellando una morsa figlia della storia del Paese -al momento dell’indipendenza dalla Spagna, alla fine dell’Ottocento, le terre vennero ripartite tra poche famiglie- e delle fine di un modello di agricoltura “di comunità”. Negli anni Settanta del secolo scorso, quando vennero costruiti “mulini industriali”, in grado di processare la canna da zucchero, i produttori si sono trasformati in semplici conferitori di materia prima, pagati sempre di meno. Ecco perché, per molti, oggi Ptfc rappresenta una minaccia: lo zucchero di canna bio “Mascobado” è il simbolo di un’indipendenza che dev’essere cancellata. 2
Riferimenti:
Gary Taubes, 2017, Contro lo Zucchero” Ed. Sonzogno
Fabio Ciconte e Stefano Liberti, 2019, Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo, ed. Laterza
Christophe Brusset , 2016, Siete pazzi a mangiarlo!, ed. Piemme
Rete Veneto Equo, Unidos Venceremos. Storie dal commercio equo&solidale (BeccoGiallo 2018)
1 Marco Belpoliti, www.doppiozero.com
2 Da articoli di Chiara Spadaro – Altreconomia 22 Agosto 2018 e Rudi Dalvai – Altreconomia 3 Dicembre 2014.